Nella nicchia destra della cappella del coro, dietro l’evangelista Marco e Sant’Ambrogio, è dipinto a fresco il ritratto dell’artefice “di tanta roba”, Antonino Ferraro.
É ritratto come un uomo con lunga barba e l’indice puntato alla seguente iscrizione: “TANTI OPERIS / HVIVS CÆLAT / OR EGREGIVS ANT / ONINVS FERRARVS SICANVS AC IVLIANENSIS HIC EST.
L’artista stesso si definisce “cesellatore senza pari di quest’opera così grande”.
Proprio il sostantivo usato, caelator, è indice rivelatore di quell’ideale processo di trasmutazione della materia, di cui il Ferraro sentiva di essere stato il protagonista.
Honorabilis magister Antonini de Inbarracuchina, questo l’appellativo che gli venne assegnato e che concerne la sua professione d’impastatore di calce.
Nel ’50 acquista una casa a Giuliana, alto e impervio paese della Sicilia occidentale e lì verrà definito nobilis magistro per essersi distinto nella decorazione della cappella del Sacramento della chiesa Madre di Giuliana; un’onorificenza che lo accompagnerà nei lavori successivi.
La scarsa documentazione sulla sua vita ci impedisce di fare una valutazione completa ed esaustiva degli influssi esterni da lui risentiti.
Sappiamo però che nel ’53 intraprese l’apprendistato palermitano presso il perugino Orazio Alfani e l’esecuzione, insieme a Giuseppe Spadafora, di una pila d’acquasanta per la cattedrale di Palermo.
Palermo era un continuo confluire di maestranze, qui si svolgono le vicende del Wobrech, del romano Baldassarre Marocco, del cremonese Fondulli e della bottega gaginiana attiva nel quartiere dell’Albergheria.
Sarà proprio l’esperienza palermitana ad offrire ad Antonino Ferraro la possibilità di tessere le trame con l’allora marchese di Terranova, Carlo d’Aragona Tagliavia.
Raggiunge il culmine nella sua lunga e intensa attività professionale con la mansione, promossa dal principe, per la chiesa di San Domenico.
L’innalzamento della navata centrale della chiesa di San Domenico sembra attenersi ad un programma ben congegnato: un’ampia unica navata terminante con un grande arco a tutto sesto, che incornicia scenograficamente la grande composizione dell’Albero di Jesse che si anima sopra l’arco gotico.
Oltre all’apprendistato palermitano, si distinguono, anche se non documentabili, riferimenti agli ambienti manieristici napoletani, come nello Sposalizio della vergine, che rivisita il tema, espresso dal Vasari, nella Presentazione al Tempio nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi o degli Olivetani, ora a Capodimonte.
Altre influenze sono di matrice iberica: si pensa che l’artista, favorito dal suo mecenate, il principe Carlo che viaggiò a lungo alle dipendenze del re di Spagna, abbia soggiornato cinque anni in territorio spagnolo.
A San Domenico sono attivi nel ‘74 anche il Fondulli che realizzò lo Spasimo di Sicilia di Raffaello, e nell’80, quando ormai i lavori del Ferraro volgevano al termine, Wobreck vi eseguì la grande pala della Circoncisione.
Il trasferimento a Castelvetrano di Antonino Ferraro è avvenuto in concomitanza con l’inizio dei lavori a San Domenico, nel 1574.
Qui deciderà di mettervi radici anche per i figli: Tommaso, Alessandro, Giuseppe e Orazio, che collaborò con il padre realizzando l’Adorazione dei Magi.