Non da meno risultano le opere minori o non connesse strutturalmente all’architettura, che in termini di tutela del patrimonio si suol definire “mobili”: quadri, statue, monumenti funerari, distribuiti nei vari ambiti della chiesa.
Le indagini avviate da Gioacchino Di Marzo, gli studi condotti da Polizzi e Ferrigno e gli ultimi approfondimenti critici dello Scuderi, confermano trattarsi di opere di alto livello, collocabili al periodo di maggior splendore della casa feudale.
Dalla fine del ‘400, ai primi del ‘600 è un continuo proliferare di realizzazioni di notevole interesse che mostrano come i signori di Castelvetrano mirassero ad abbellire la chiesa di S. Domenico, scelta a mausoleo di famiglia, servendosi di artisti della più varia provenienza.
Seguendo l’ordine cronologico di esecuzione, abbiamo:
- la statua in marmo della Madonna di Loreto, eseguita nel 1489, per il barone Giovanni Antonio Tagliavia, attribuita al grande artista dalmata Francesco Laurana.
- Il dipinto su tavola raffigurante S. Vincenzo Ferreri, del XVI sec., attribuito allo spagnolo Antonello Benevides.
- Il monumento sepolcrale in marmo, con la figura del giacente, dove è riposta la salma di Ferdinando Tagliavia Aragona morto nel 1549.
- La grande copia su tavola della Caduta sulla via del Calvario di Raffaello, eseguita dal cremonese Giovan Paolo Fundulli nel 1574 che è generalmente nota come Spasimo di Sicilia.
- Sempre del Fundulli, che lavorò a lungo in Sicilia, sono due dipinti anch’essi su tavola raffiguranti San Domenico, trafugato nell’82, e una Sacra Famiglia e Santi del 1573, trasferita nel 1949 al palazzo vescovile di Mazara del Vallo e oggi ricollocata nella cappella di fondo della navata destra in S. Domenico.
- Il dipinto su tavola con la Circoncisione, eseguito dall’olandese Simone Wobreck tra il 1575-80.
Tra la fine del XVI secolo e gli inizi del successivo, risalgono:
- il grande Crocifisso, nella prima cappella destra;
- la tela di Bartolomeo Navarretta raffigurante la Vergine che appare a S. Giacinto recuperata in condizioni pietose a causa del terremoto;
- la tela del trapanese Vito Carrera con San Raimondo di Peñafort;
- le due tele raffiguranti, l’Adorazione dei Magi e Gesù nell’orto degli ulivi di Orazio Ferraro, figlio di Antonino, mentre una terza con la Madonna del Rosario, è stata trafugata.
Se si considerano anche la tomba gentilizia degli Aragona-Tagliavia posta nella cappella del coro, il loro monumento funerario nella cappella a destra del presbiterio, gli stalli corali, l’altar maggiore, l’organo, il pulpito, si parla di un patrimonio artistico inestimabile, che fa di S. Domenico uno dei monumenti di maggior spicco della Sicilia occidentale.
DECORAZIONI MINORI
L’ampia navata centrale, è coperta da volta a crociera, con quattro archi per lato sostenuti da robusti pilastri compositi frastagliati, dove sono inscritte due lesene reggenti il cornicione, affrescate con figure di santi domenicani e targhette coi rispettivi nomi.
In alcune la didascalia non è di facile traduzione, quasi del tutto illeggibile, e figurano: il Beato Iacopo da Varagine, il Beato Iacopo Salomoni, le domenicane di origini spagnole Giovanna d’Aza e Rosa da Lima, i pontefici Benedetto XI e Pio V, i vescovi Antonino Pierozzi e Alberto Magno.
La data di esecuzione di tali affreschi è da collocare tra il 1672 e il 1712, anni della beatificazione e canonizzazione di Pio V.
Tutti gli archi sono sovrastati da elaborati scudi, attualmente imbiancati, che contenevano le armi dei patroni degli altari.
Conferma di ciò, è l’ultimo elemento nella cappella del SS. Nome di Gesù, che ha tutti i tipici ornamenti, l’aquila imperiale e le bandiere con le teste dei re messicani sottomessi, presenti nello stemma di Diego Aragona Tagliavia.
Ciò lascia pensare che anche gli altri scudi fossero stemmi araldici.
Proseguendo verso il coro, sotto le decorazioni del Ferraro, le pareti del coro sono affrescate da un finto zoccolo ad effetti marmorei, dove si intravede una decorazione con mascheroni ed elementi vegetali.
Al tendaggio della parte di fondo si sovrappongono due grandi drappi, di colore azzurro con decorazione pittorica a cariatidi e puttini, che incorniciano le edicole-reliquiario.
LO SPASIMO DEL FUNDULLI
Il coro si spezzava al centro per dar spazio sia al sarcofago di Ferdinando Tagliavia Aragona, sia allo Spasimo del Fundulli.
La grande tela con Il trasporto della croce, meglio conosciuta come lo Spasimo di Sicilia, copia dell’opera di Raffaello, che l’artista cremonese G.P. Fundulli aveva eseguito per Carlo d’Aragona nel 1574 è collocata sulla parete di fondo della cappella del coro.
La fortuna che l’opera incontrò nell’isola fu tanta da essere riprodotta ben presto in numerose copie.
Questa fortuna non si spiega solo con la fama che acquisì il suo autore, Raffaelo, ma anche il fatto che l’opera incarna la condizione di angoscia e di speranza derivante dall’insularità; il dato che ha sempre spinto i siciliani ad esorcizzare le paure e le sofferenze andando alla perenne ricerca di una sorta di protezione attraverso la fede e l’arte.
Testimonianza della sua importanza è la posizione privilegiata che occupava e occupa all’interno della chiesa di S. Domenico.
Fu collocato nella parete centrale del coro, come momento finale di quel percorso ideale di redenzione che dalla porta della chiesa, attraverso la navata ed il presbiterio, giunge nel coro, fermandosi davanti al Cristo che cade sotto il peso della croce, fra il pianto della Vergine e delle pie donne.
Alla maniera di Raffaello, l’opera è ricca di figure di grande forza e potenza: come il soldato che trascina Cristo con la corda e il Cireneo che solleva la croce e si volta con impeto.
Il gesto di Maria protesa verso il figlio sembra accogliere e condurre l’osservatore lungo un’ampia curva che si distende da destra a sinistra attraverso il Cristo e sale fino al paesaggio attraverso le lance e le aste dei vessilli, riuscendo a condensare lo spazio in una grandiosa unità.
Un elemento che differiva dall’originale è il volto del guerriero armato di scudo, dietro il Cireneo, che prima del recente restauro mostrava fattezze diverse, sguardo scrutatore e barba scusa, e si è supposto essere l’autoritratto dello stesso Fundulli, un’operazione postuma dell’artista che all’ultimo momento abbia voluto sovrapporre al dipinto la propria immagine.
IL SARCOFAGO DEL GUERRIERO GIACENTE
In basso, poggiato per terra, sotto la tela dello Spasimo, giace il sarcofago di marmo bianco, privo di base, sul quale è sdraiato un cavaliere crociato col simbolo gigliato di S. Giacomo, con la testa in riposo sul braccio destro e la sinistra che poggia su un libro.
Il sacello contiene le spoglie di Ferdinando Tagliavia e Aragona, figlio di Giovan Vincenzo, morto prematuramente nel 1549.
Il marmoreo monumento fu reso dalla moglie Giulia come si evince dalla scritta presente nel fronte del sarcofago stesso; affiancano la scritta i due stemmi con le insegne dei Tagliavia e degli Aragona.
Nel capo dello scudo si riscontra la croce dell’Ordine di S. Giacomo della Spada.
Si vuole che il cadavere di questo cavaliere portasse una corazza di argento ed oro ed altre armi pregevoli, oggetti tutti trafugati.
Tra le ricerche per la paternità dell’opera, quella di Vincenzo Napoli ci induce a supporre, confrontando l’opera con un altro sarcofago realizzato nel 1565 da Antonino Gagini e custodito nella chiesa Madre di Marsala, che sia opera del figlio di Antonello, per le singolari analogie nella postura del soldato e nello stile.
IL SARCOFAGO DEI TAGLIAVIA
Nel mezzo della cappella, si erge isolato un altro sarcofago di forma rettangolare, intarsiato da marmi policromi poggiante su quattro zampe di leone che fungono da base e culminante a forma di piramide.
Nei quattro lati è un susseguirsi di figure geometriche cerchi, rombi, quadrati e rettangoli in marmi policromi.
Il coperchio piramidale è suddiviso in dodici spicchi, tre per lato riproponendo altre figure geometriche triangoli, trapezi e rombi iscritti in cerchi.
Detti segni e figure, coi loro richiami numerici e simbolici, sono latori proprio di quel messaggio esoterico che si ripercuote in tutta l’apparato decorativo.
In questo sepolcro, come dice anche la scritta OSSIBVS ET MEMORIAE TAGLIVIORVM, sono sepolti i cadaveri di: Beatrice d’Aragona, moglie di Giovanni Vincenzo Tagliavia (1534), di detto Giovanni Vincenzo Tagliavia (1538), di Margherita Ventimiglia, moglie di Carlo primo principe di Castelvetrano (1579), di Giovanni d’Aragona Marchese d’Avola (1590), di Carlo d’Aragona I (1599), di Carlo d’Aragona II (1604), di Zenobia Gonzaga, moglie di Giovanni d’Aragona (1618), di Domenico Pignatelli (1648) e di Stefania Mendoza e Cortes, moglie di Diego Aragona e Pignatelli (1653).
Nella parte inferiore delle pareti laterali, sotto la fascia degli angioletti che delimitano la decorazione ferrariana, è affrescato un elaborato porticato.
Tipico di una pittura in stile rocaille è composto da colonne tortili alla base e scanalate nel fusto, reggenti una grande trabeazione, ricca di conchigliformi volute, festoni e fiori.
Su uno dei plinti della parete di destra troviamo affrescato un paesaggio lacustre, mentre su quelli della parete sinistra: in uno, un paesaggio campestre, con un eremita in primo piano e un borgo sullo sfondo; nell’altro un paesaggio marino con una barca a vela e un castello in profondità.
Nei lati esterni delle colonne, finte finestre, drappi e schiere di putti fanno da cornice a dei paesaggi affrescati, di cui è leggibile solo quello di destra, che ci mostra, in primo piano una chiesa con campanile e fabbriche conventuali annesse, e, nello sfondo, un paesaggio urbano.
Il senso della scena è chiarito dalla scritta sbiadita PRÆSIDIO & DECORI VRBIS, “a difesa e ornamento della città”.
Più in basso, nella parete destra, è riprodotto lo stemma domenicano. Cappato di nero e bianco, nella porzione bianca in basso siede accovacciato un cane che regge una fiaccola accesa, sovrastato da un ramo di palma e da uno di giglio fiorito che si incrociano a mo’ di stella al centro.
Nella parete di sinistra, invece, entro uno scudo coronato sorretto da angeli, si vede una croce che emerge da un vaso con fiori, spada e ramo di quercia, sovrastante un serpente.
Sotto lo stemma domenicano, campeggia la scritta REGIVS HIC ORDO EST ROSEVS FIDEIQVE COLVMNA CHRISTI OVIVM CVSTOS, LVX DECVS ORBIS HONOR, “Questo è il rosso regio Ordine, colonna della Fede, custode delle pecore di Cristo, luce, decoro e onore del mondo”.
Secondo un’altra incisione distribuita sugli zoccoli dei due plinti gli affreschi furono eseguiti nel 1706, ma non si è ancora riusciti ad individuare quale artista si nasconda sotto le iniziali del suo nome.
L’ORGANO
Fra le opere minori inoltre, vanno annoverati: l’organo realizzato intorno al 1580 e collocato all’interno di una cantoria con lacunari a vista e una balconata lignea scandita da dieci pilastrini e sorretta da due mensoloni che presentano delle erme di stucco.
L’opera, del famoso organaro palermitano Raffaele La Valle, ha una magnifica cassa, composta da quattro lesene scanalate, delimitanti tre scomparti: due laterali con trabeazione per le canne più corte, quello centrale, sovrastato da un arco a tutto sesto per le canne più lunghe.
Una griglia finemente lavorata incornicia le canne.
Completano la decorazione due festoni laterali a motivi vegetali e una cornice con fastigio culminante in una palmetta.
Accostato all’organo si trova un pulpito ligneo di un certo valore artistico. Il parapetto, delimitato sopra e sotto da due cornici, era diviso in tre scomparti: quello centrale rettangolare, bombati invece i due laterali e contenenti delle tele, che purtroppo sono state involate.
Da ricordare anche le molte pietre tombali poste sul pavimento, rinvenute nel corso dei lavori di restauro, dove figurano i nomi e gli stemmi di alcune fra le eminenti famiglie castelvetranesi: Maio, Piccione, Calcara, Monteleone, Paola,….
I restauri hanno portato alla luce un numero notevole di cripte, in alcuni casi vere e proprie cappelle sotterranee.