CAPPELLA DELLA MADONNA DI LORETO
La cappella absidale sinistra della Madonna di Loreto, secondo l’assetto strutturale si suppone che sia stata costruita successivamente, forse contemporaneamente all’altra della navata opposta.
All’altare fu posto, sopra uno zoccolo ottagonale, la statua della Madonna di Loreto, opera dell’artista Francesco Laurana.
L’opera fu realizzata per volere di Giovanni Antonio Tagliavia nel 1489, come si evince dalla scritta sul bordo della base della statua: FECIT MAGNIFICVS D˜HS IOANNES ANTHONIVS TAGLAVIA D. TERRE CASTRI VETTERANI.
Sotto la cornice e sopra il bassorilievo, raffigurante la casa santa di Loreto, con gli angeli che ne reggono le colonne e la Vergine col Bambino al centro, sta l’indicazione del soggetto: BEATE (sic) MARIA DE LVRITV.
Ai lati, in due distinti rilievi, la Vergine Annunziata e l’Angelo annunziante.
Viene naturale il raffronto tra quest’opera e l’altra opera del Laurana lasciata a Castelvetrano, l’altrettanto famosa Madonna di Trapani, databile al 1468, oggi accolta nella chiesa dell’Annunziata.
Le due statue, oltre a segnare cronologicamente l’evoluzione artistica dell’artista, recuperano, in forma diversa, il tema di Cristo “nuovo Adamo”.
Nella Madonna di Trapani, lo scultore sviluppa il motivo della recirculatio: la Vergine, nuova Eva, porge un pomo, simbolo del peccato, al Bambino, che lo restituisce purificato al seno della Madre.
Nella statua della Madonna di Loreto in S. Domenico, la simbologia è semplificata, restando un unico frutto che passa dalla mano della Vergine a quella del Figlio, il quale si limita a toccare il cuore della Madre.
ALTARE DEL SS. NOME DI GESÙ
Riconosciamo che l’altare è di proprietà dei feudatari di Castelvetrano attraverso lo stemma araldico, lo scudo, riportato sull’arco che si affaccia alla navata, che è contornato dagli stessi ornamenti presenti sull’emblema di Diego Aragona Tagliavia.
La struttura completamente rimodernata, degli elementi originari conserva soltanto l’antica pedana con mattoni di maiolica e una statua su mensola.
Posta nel lato destro molto danneggiata, dalla posizione delle mani sul cuore, la statua rimanda all’iconografia del Beato domenicano Enrico Suso, predicatore del nome di Gesù.
Il titolo dell’altare deriva dal soggetto del quadro, ivi collocato, raffigurante la Circoncisione, col sacro nome di Gesù, inscritto in alto, dalle lettere IHS, trascrizione latina dell’abbreviazione del nome greco di Gesù.
La stessa sigla la ritroviamo nella parte alta della cornice circondata di raggi e sormontata da una croce.
L’opera, dell’artista Simone di Wobreck, celebre pittore fiammingo, raffigura, il Bambino disteso sulle ginocchia di Maria, pronto per l’incisione.
Sulla sinistra un anziano in abiti sacerdotali si accinge ad eseguirla, tenendo una lama nella mano destra.
Secondo lo Scuderi, l’artista tenta un “accordo tra forma monumentale di tipo classicistico, realismo pragmatico e sentimentalismo religioso; il tutto in una gamma di colori accesi e di toni piuttosto freddi, violacei, rossi, verdi, ocra, di evidente derivazione manieristica”.
L’opera è inquadrata entro un grande tabernacolo in legno dorato di ignoto ebanista siciliano.
Con intagli e pitture ispirate ad un repertorio classicistico molto diffuso in Italia tra il XV e il XVI sec, è caratterizzato da ovuli, dentelli, girali con soggetti vegetali, grottesche e figurazioni tipiche dei motivi a candelabra.
Databile, secondo l’incisione riportata nella cornice stessa, nel 1580, è costituita strutturalmente da due pilastri laterali, con rispettivi capitelli e plinti, sormontati da una pesante trabeazione.
Sotto l’altare fu collocata la salma di donna Zenobia Gonzaga, che nonostante la volontà testamentaria di esser seppellita insieme al marito, il consorte don Giovanni di Aragona fu seppellito ai Cappuccini.
ALTARE DI S. GIACINTO
L’altare, anche se in pessime condizioni, è uno dei pochi originali e conserva nella parte centrale, tra nuvolette e raggi, il monogramma di Maria accompagnato dalla scritta DE BALZO, con riferimento al culto della Madonna.
L’edicola, che occlude in parte la visione del quadro retrostante, ha la forma di tempietto contenente molto probabilmente una volta l’immagine della Vergine.
In alto, una grande cornice in tufo, ricoperta di stucco, occupa tutta la parete di fondo e incornicia il quadro della Madonna con S. Giacinto e storie.
Nella tavola è inscritto il nome dell’autore, Bartolomeo Navarretta, ottimo pittore cinquecentista spagnolo, che riprodusse la visione che ebbe San Giacinto nel 1240.
Il santo fu costretto ad abbandonare la città di Kiev, rappresentata molto probabilmente nella finestra sullo sfondo alle sue spalle, sotto la furia dell’attacco dei Tartari.
La scena si articola in diagonale, e ha come punto focale e di massima luminosità la figura della Vergine, sospesa su nuvole e putti, con la mezzaluna ai piedi.
Il suo bagliore è tale da riverberare sul saio bianco del frate in netto contrasto col nero della cappa.
Sopra la testa di S. Giacinto, secondo un canone tipico del manierismo cinquecentesco, si snoda un nastro con la scritta: GAVDE FILI IACINTE QVIA ORATIONES TVAE SVNT GRATAE FILIO MEO ET QVICQVID AB EO PER ME PETIERIS IMPETRABIS.
“Esulta, Giacinto, figlio mio, perché le tue orazioni sono gradite a mio Figlio, e tutto ciò che chiederai per mezzo mio lo otterrai”.
Sono le parole che secondo la tradizione rivolse la Vergine al santo frate, che nel quadro è ritratto in ginocchio, trasfigurato dalla presenza mistica visibile dai suoi occhi fissi alla celeste apparizione.
Secondo l’iconografia tradizionale, il giglio e il libro ai piedi del santo, sono simboli di purezza e dello studio della Parola di Dio.
La fuga del pavimento in maioliche contribuisce, insieme alla finestra, a dare una certa profondità alla scena.
Ai lati dell’opera, sorrette da mensole, due statue: a sinistra, mutila di riferimenti iconografici, si riconosce Santa Caterina da Siena, a destra Sant’Agnese da Montepulciano reggente nella sinistra il mistico Agnello.
CAPPELLA DELLA MADONNA DEL ROSARIO
Attraverso un vestibolo e salendo tre gradini, si accede all’ampia cappella della Madonna del Rosario, delimitata da un grande ed alto arco a tutto sesto, decorato con motivi floreali in stucco.
Conserva ancora l’altare originale, con ai lati due telamoni che reggono due coppie di colonne trilobate e scanalate con capitelli corinzi.
Sui capitelli, un elaborato architrave sostiene un’edicola attorniata da erme e numerosi angioletti che reggono dei nastri con l’iscrizione DOMINA COELORVM, tale edicola conteneva un quadretto con l’Incoronazione di Maria.
Al centro dell’architrave, un’elaborata targa, invece, contiene una scritta rinvenuta parzialmente alla luce dai recenti scavi: GAVDEAT (LAN)/ GVORES HAEC NEOTH (?) / VIRGO TRIVMPHIS/ MISTICA QVIPPE ROSA EST/ CVLTVM PRAEBETE FIDE.
Lo spazio tra le colonne, sorrette dai telamoni, ospitava un quadro di Orazio Ferraro raffigurante la Madonna col Bambino, S. Domenico e Santa Caterina, dei primi anni del ‘600, ma col tempo fu danneggiata e trafugata.
Era rappresentata la Vergine con in grembo il Bambino su un trono di nuvole con putti e fiori al suo seguito.
In basso era dipinto un gruppo di Santi domenicani, tra cui in primo piano S. Domenico in atto di ricevere il rosario da Gesù Bambino, mentre S. Caterina lo accoglieva dalla Madonna.
Dietro i due santi stavano rispettivamente a sinistra le figure di due pontefici, forse Pio V, il papa di Lepanto, e Gregorio XIII, l’istitutore della festa del Rosario nel 1573; a destra due volti femminili, si suppone Santa Caterina d’Alessandria e Santa Barbara.
Tutt’intorno al quadro erano raffigurati, entro tondi, ovali e riquadri, i misteri 14 anziché 15, forse per ragioni compositive.
Nel 2014, al detto altare è stato collocato il quadro di S. Raimondo da Peñafort e storie, il più antico dipinto che resta di Vito Carrera, un pittore di provincia che seppe accogliere e assimilare gli influssi disparati della cultura palermitana degli ultimi decenni del ‘500.
L’opera fu fatta eseguire, secondo l’iscrizione, poco dopo la canonizzazione di Raimondo avvenuta nel 1601: IMAGO HEC EXPRESSA EST TE/MPORE PRIORATVS ADMODVS R. P. FRATRIS SILVII CRISAFI/PRIORIS APOSTOLICE PROVI/DENTIA ELECTI A.D. 1602.
“Questa immagine fu dipinta al tempo del priorato del molto reverendo padre fra Silvio Crisafi eletto priore per volontà apostolica nell’anno del Signore 1602”.
Nello stesso quadro si ricorda il nome dell’autore: HVIVS IMAGINIS DELI/NEATOR VITVS CARRERA/DREPANITANVS, “Il pittore di questa immagine fu il trapanese Vito Carrera”.
Il Carrera mette in evidenza il fiero e dignitoso carattere del dotto frate domenicano, colto con la chiave nella mano sinistra, con un libro nella destra, e altri volumi ai suoi piedi.
Nella parte centrale del quadro, il frate è sormontato da un angelo in movimento recante con la mano e con la testa un libro, intorno, 18 ovali accartocciati rappresentano le scene tratte dalla vita di S. Raimondo.
Sullo sfondo, un luminoso paesaggio con una città contribuisce a dare profondità all’insieme, evidenziando la figura principale di S. Raimondo, che si staglia in primo piano tra alberi e rocce.
Alle pareti laterali della cappella, quattro lesene sorreggono una cornice, sulla quale poggiano delle paraste scanalate con capitelli compositi.
Tale struttura divide lo spazio in tre scomparti vistosamente decorati da angeli, cherubini, festoni e nastri, che racchiudono cornici rettangolari o ovali con affreschi rappresentanti scene attinenti la tematica della Madonna del Rosario.
Al centro della parete sinistra, entro la cornice rettangolare, è raffigurata la battaglia di Lepanto, evento che ebbe tanta influenza nella diffusione della pratica del rosario.
In modo stilizzato sono riprodotti i due schieramenti nemici, a sinistra quello cristiano con la bandiera crociata, a destra quello turco con la mezzaluna.
Nell’ovale di sinistra, l’affresco, molto rovinato, lascia intravedere un frate domenicano inginocchiato rivolto alla Madonna.
Il motivo è quello della mediazione mariana nel suffragare i peccatori, come si evince dalla scritta rovinata ma che sono riusciti a ricostruire: B. VIRGO DEVOTIS SVIS VERAM IMPETRAT CONTRITIONEM VT PECCATA CONFITEANTVR ET INDVLGENTIAM A D(EO) (CO)NSEQVANTVR.
“La Beata Vergine invoca per i suoi devoti la vera contrizione affinché confessino i peccati e ottengano da Dio l’indulgenza”.
L’affresco dell’ovale destro, invece, insiste sui meriti che il rosario procura in vita, in morte e nell’aldilà.
La scena, per quel che rimane, propone in basso la visione delle anime purganti, al centro la visione della chiesa orante raccolta attorno al sacrificio eucaristico, e in alto la gloria celeste.
Tutt’intorno capeggia l’iscrizione: IN ROSARIO PERSEVERANTES HABENT IN VITA IN MORTE ET POST MORTEM BENEDICTIONEM ER GRATIAM ET OMNIVM MERITORV CV SÃCTIS CÕMVNICATIONE.
“Coloro che perseverano nel rosario avranno in vita, nella morte e dopo la morte benedizione e grazia e la comunione di tutti i meriti con i Santi”.
Nella parete di destra, al centro si trova l’affresco della Madonna col Bambino che porge il rosario a un personaggio inginocchiato in paramenti liturgici, forse Pio V, con alle spalle tre committenti.
In secondo piano si snoda una processione eucaristica, che esce da una chiesa, con davanti una confraternita di incappucciati, seguita da frati domenicani, davanti al baldacchino, ecclesiastici e laici.
Al di sopra del riquadro spicca una croce domenicana di colore bianco e nero.
Nell’ovale alla sinistra dell’affresco, si intravede un frate che dal pulpito mostra il rosario a una schiera di monache domenicane anche loro con il rosario in mano intente a pregare; al di sotto un angelo libera le anime del Purgatorio recanti sul collo o sule mani una corona.
Fonte di luce e profondità nell’opera è l’apertura, che lascia intravede l’immagine a distanza di un castello.
Anche qui una scritta chiarisce il senso della rappresentazione: ROSARIVM RECITANTES IN MVNDO ID AGVNT QVOD BEATI FACIVNT IN CAELIS; ET IN DIES ALIQVOS DE PVRGATORIO ERIPIO.
“Coloro che recitano il rosario sulla terra, questo ottengono: che diventano beati nel cielo; ed io ogni giorno ne strappo alquanti dal Purgatorio”.
Nell’ovale destro, invece, è ricordato un episodio tratto dalla vita di S. Domenico e la conversione del cugino Pedro, cui il santo impose al collo il suo rosario per fargli comprendere quanto peccaminosa fosse la vita che conduceva e quanto la sua anima fosse già in preda del demonio.
Più in alto la scena di un devoto del rosario che viene accolto dagli angeli in paradiso.
La frase che accompagna l’affresco rinvia alla potestà salvifica del pio esercizio della corona: SIGNVM PROBABILE ÆTERNÆ DAMNATIONIS EST HORRERE VIRG.IS ROS(AR)IVM DEVOTIS VERO SIGNVM EST PRÆDESTINATIONIS AD GLORIAM.
“Probabile segno di eterna dannazione è disprezzare il rosario della Vergine, mentre pei suoi devoti è segno di predestinazione alla gloria”.
Sopra la pala di S. Raimondo, tra due cornici, corre una fascia decorata da angeli e cartigli lungo la quale si aprono due finestre, una per lato.
Al centro nella volta si nota un grande ovale, da cui si dipartono tutt’intorno otto scompartimenti trapezoidali sempre colmi di affreschi e putti a tutto tondo.
L’affresco centrale è un’allegoria del fecondo proliferare della pratica del rosario, due frati, rispettivamente Beato Alano e San Domenico, sono intenti ad innaffiare e arare il terreno su cui cresce un albero.
I frutti di quest’albero sono rappresentati da corone del rosario, seguendo una tradizione iconografica abbastanza diffusa tra 500 e 600.
Gli affreschi presenti nelle cornici raffigurano i pontefici collegati al rosario: a sinistra Leone X, Gregorio XIII sull’altare, a destra Sisto IV.
Il quarto ovale completamente rovinato, con ogni probabilità doveva rappresentare Pio V, tra i pontefici quello maggiormente legato al culto mariano.
All’interno della cappella, sul pavimento, trova posto la grande lapide sovrastante la tomba dei confrati del notaio Vincenzo Graffeo, governatore pro-tempore della congregazione del rosario.
La lastra, datata 1684, quadrilobata, con gigli stilizzati che formano i quattro apici di una croce domenicana, è messa in risalto da una grigia cornice marmorea con un complesso intreccio di rose e tulipani, simbolo di Maria, fiancheggiato da due rossi pavoni, immagine della resurrezione.
Tutto intorno corre un motivo a grani che ricordano la corona del rosario; e in basso leggiamo la seguente iscrizione: FLORENTISSIMA ROSARY SOCIETAS CVIVS VIVIDA PIETAS ROSEAM HANC ARÃ GRATYS ORNATÃ ROSEO EXORNAVIT AMORE AVREO CONTEXIT FVLGORE, DEI MATRIS PATROCINIO SPERA NS A FILIO VENIÃ AD SODALIVM MORTVORV SVFFRAGIA, AD VIVE NTIV AD PIETATE EXCITAMENTA HOC SIBI ROSEV ELEGIT TVMVLVM MDCXXXIV.
“La fiorentissima compagnia del Rosario la cui vivida pietà adornò questo roseo altare già ornato di grazie con roseo amore, lo ricoprì di aureo fulgore, sperando col patrocinio della Madre di Dio il perdono del Figlio di fronte ai suffragi dei confrati morti e agli incitamenti alla pietà dei viventi, scelse per sé questo roseo tumulo, 1684”.
ALTARE DI CRISTO ALL’ORTO
L’altare è stato completamente rimodellato, ma conserva ancora nella volta a crociera le doppie nervature decorate che delimitano le vele.
Al centro una bella cornice in stucco, sormontata da un architrave ornato di fregi, accoglieva in origine il quadro di Cristo all’orto, un’oleografia di Orazio Ferraro, oggi posta nella chiesa di S. Giovanni a Castelvetrano.
Ai lati invece due grandi nicchie conchigliate, con due mensole, sorreggono due statue: a sinistra San Pietro martire, riconoscibile per i resti della mannaia conficcata sulla testa e il libro.
A destra quella di Santa Lucia ravvisabile dalla scritta posta lungo l’orlo della mensola, venuta alla luce dall’ultimo restauro.
Anche le due statue sono da attribuire al Ferraro, e lo si nota dal marchio inciso, la cometa, che utilizzava per firmare le sue opere, accompagnata dalla data di realizzazione 1593.
Lo stemma della volta, appartenente alla famiglia Ferraro, è costituito da uno scudo diviso in due parti, nella parte superiore un compasso aperto è affiancato da due stelle, in quella inferiore v’è un monte accompagnato da una stella.
Ciò è prova del fatto che l’altare fosse di pertinenza della famiglia di artisti d’origine giulianese, il cui capostipite Antonio Ferraro, decorò la chiesa e che alcuni esponenti furono forse sepolti nella sottostante cripta.